L’opera, databile alla fine del Trecento, è uno degli oltre seicento peducci del Duomo, elementi di sostegno degli archetti trilobati presenti sulla zoccolatura della Cattedrale.
Caratterizzati dalle forme più svariate (busti e figure umane, animali reali o fantastici, teste di mascheroni ecc.), i peducci sono stati soggetti ideali per gli scultori del Duomo, che hanno riversato in essi una ricchezza di fantasia ben superiore alla loro effettiva importanza architettonica.
In particolare il peduccio in oggetto, proveniente da un contrafforte del braccio di croce meridionale, è uno dei più antichi. Esposto in Museo all’interno della sala dedicata all’epoca viscontea (n. 4), rappresenta una testa maschile con baffi e folta barba attorta in boccoli; il viso, incorniciato da un estroso copricapo ricadente sulla sinistra, mostra una decisa caratterizzazione, con naso lungo e sottile, zigomi alti e piatti e occhi allungati con pupille in piombo, dallo sguardo quasi spiritato.
Dall’ornamento a fogliame posto nella parte inferiore del parallelepipedo che conclude il peduccio in alto a sinistra, infine, spunta un grappolo d’uva. Tale particolare ha indotto gli studiosi a identificare il volto con quello di Noè, in riferimento all’ebbrezza del patriarca descritta dal libro della “Genesi”.
Dal punto di vista stilistico, le caratteristiche formali dell’opera la collocano tra le sculture attribuibili alle maestranze ungheresi attive per il cantiere del Duomo a fine Trecento, facenti capo a Lasse d’Ungheria; nello specifico, oltre al peduccio in oggetto, queste ultime sarebbero intervenute in altri esemplari, che rivelano particolari assonanze con alcune frammentarie sculture tardogotiche recentemente ritrovate negli scavi del Palazzo Reale di Buda.