L’opera, databile all’ultimo decennio del Trecento, è uno degli oltre seicento peducci del Duomo, elementi di sostegno degli archetti trilobati presenti sulla zoccolatura della Cattedrale.
Caratterizzati dalle forme più svariate (busti e figure umane, animali reali o fantastici, teste di mascheroni ecc.), i peducci sono stati soggetti ideali per gli scultori del Duomo, che hanno riversato in essi una ricchezza di fantasia ben superiore alla loro effettiva importanza architettonica.
In particolare il peduccio in oggetto, proveniente da un contrafforte del braccio di croce meridionale, è uno dei più antichi: sostituito da una copia per essere esposto in Museo, dove si trova tuttora all’interno della sala dedicata all’epoca viscontea (n. 4), rappresenta la testa di un cane mastino a denti digrignati, con le sopracciglia aggrottate e gli occhi dalle enormi pupille di piombo spalancati in uno sguardo fisso.
Gli studiosi hanno attribuito il peduccio a un ignoto scultore appartenente all’ambito di Jacopino da Tradate o di Giovannino de’ Grassi. Se quest’ultimo, architetto, scultore, pittore e miniatore, fu ingegnere stabile della Veneranda Fabbrica dal 1391, occupandosi della costruzione e della decorazione scultorea di crociera e coro del Duomo, dal 1415 Jacopino divenne scultore a vita presso il cantiere della Cattedrale, posto a capo di una bottega di formazione di giovani lapicidi.
Nello specifico, il raffinato naturalismo del peduccio si avvicina molto agli animali miniati per l’alfabeto figurato del “Taccuino” di Bergamo di Giovannino de’ Grassi (Bergamo, Biblioteca Civica), anche se il modellato del peduccio appare più pronunciato rispetto alle morbidezze delle miniature presenti nel codice.