Expo 1906: la sfida per portare Milano in Europa
Un racconto che continua: l’Archivio della Veneranda Fabbrica si apre per svelarvi un’emozionante storia
Il 1906 fu agitato per la politica italiana. In febbraio c’erano state le dimissioni del Presidente del Consiglio Alessandro Fortis: la Camera respinse con 221 voti contro 188 un ordine del giorno che cercava di salvarlo. Seguì un esecutivo guidato da Sidney Sonnino, ma durò soltanto 98 giorni, ché nel maggio di quell’anno anche l’appoggio del gruppo socialista venne a mancare al nuovo governo, in seguito ad un conflitto sanguinoso, consumatosi a Torino, tra operai e forza pubblica. È in questo clima che si apre a Milano, sabato 28 aprile di quel 1906, l’Esposizione Universale (si chiuderà l’11 novembre). Una serie di eventi lo avevano annunciato. Innanzitutto era stato ultimato il traforo del Sempione il 24 febbraio del 1905; sarà inaugurato il 19 maggio e aperto al traffico il 1 giugno. Milano aveva finanziato l’impresa con due milioni di lire, somma notevole per quel tempo. D’altra parte era una città con mezzo milione di abitanti, trenta linee per il tranvai e un treno che poteva raggiungere Ginevra in poche ore (e poi Parigi). Ed era percorsa già da numerose automobili.
Una corsa ogni cinque minuti
Per l’Esposizione, vetrina della modernità, furono previste due aeree: una centrale dietro il Castello Sforzesco (l’attuale Parco Sempione, tra l’Arena e l’odierna Triennale), e una distaccata (dove sarebbe sorta la ex Fiera al Portello). Erano collegate da una ferrovia sopraelevata, un viadotto di un chilometro e 350 metri percorso da trenini a trazione elettrica monofase, costruito in legno sopra le strade cittadine, eccezion fatta per il Parco, dove transitava al suolo. Una corsa ogni 5 minuti; il costo: 10 centesimi. Non chiediamoci cosa sia restato di tutti quei progetti, giacché l’unico superstite è l’Acquario, pensato come non permanente, un gioiello liberty dedicato allora alla piscicultura.
I 107 padiglioni nati per stupire il mondo
Ma il gruppo di architetti, sotto la guida di Sebastiano Locati, non si crucciò più del dovuto per dar vita a installazioni permanenti. Scompariranno i tre edifici destinati alla mostra delle Belle Arti, il padiglione dell’Arte decorativa, quei luoghi che accolsero opere inglesi o francesi, austriache o altre giunte da Cina e Giappone. Non durò nemmeno il padiglione della Previdenza, né lo svizzero. La Germania aveva organizzato un ristorante self-service, ma di esso non durerà nemmeno l’idea. Teodoro Moneta allestì un padiglione per la Pace e organizzò una conferenza internazionale (nel 1907 vincerà il Nobel). Insomma, Milano desiderava scrivere il futuro senza farsi soverchie illusioni sulla conservazione del suo progetto, anche se lo aveva pensato come permanente. Erano sorti per la bisogna 220 edifici, di cui 107 padiglioni; 35 mila furono espositori, giunti da 40 nazioni; i visitatori saranno circa 10 milioni.
Quelle fiamme che non fermarono la Fabbrica
L’Esposizione subì poi un incidente: nella notte tra il 2 e il 3 agosto scoppiò un incendio che distrusse il padiglione dell’Arte Decorativa italiana e ungherese, quello dell’Architettura e, in particolare, il padiglione della Fabbrica del Duomo. I pezzi esposti bruciarono. Milano non si perse d’animo e in quaranta giorni le parti colpite dal fuoco furono ricostruite e inaugurate nuovamente alla presenza del re. Aggiungiamo che il Duomo aveva al centro del suo spazio un grande modello ligneo della cattedrale, dovuto a di Giacomo Mattarelli. Nella polizza stipulata, risultava assicurato per 20 mila lire. Tra i pezzi che si potevano vedere, e si deducono dalla polizza stipulata dalla Fabbrica, vi sono tra gli altri tre arazzi cinquecenteschi su disegno di Giulio Romano (18 mila lire), i «telai con vetri istoriati a colori» (3.200 lire), cinque «tavoli inclinati tutti attorno alle pareti» con cimeli e documenti storici (1.700 lire). Senza contare disegni, bozzetti, nonché manoscritti dell’archivio della Fabbrica, come il Registro di istromenti (testamenti e donazioni) in una trascrizione secentesca, libri contabili del Trecento, il primo volume quattrocentesco delle ordinazioni del Capitolo dei Deputati, lettere di indulgenze e persino - provenienti dall’eredità Carelli - sette documenti su compere di schiavi.
Il restauro per salvare il patrimonio dell’Archivio
Nell’archivio della Veneranda Fabbrica è conservato un dattiloscritto, datato 21 luglio 1914, firmato dal prefetto della Biblioteca Ambrosiana, Achille Ratti (sarà poi papa Pio XI), riguardante «il restauro ed il recupero all’uso de’ registri del Duomo periclitati nell’incendio dell’Esposizione». Si scopre che nel luglio 1912 i resti furono portati all’Ambrosiana e si presentavano «all’aspetto come sette masse parallelepipedi... completamente carbonizzate». Si cercò di intervenire trattando i resti con gelatina, «o colla di pesce della migliore che si produce e che, per dirlo subito, viene ormai preparata ed applicata in modo da allontanare ogni fondato timore di successiva alterazione e decomposizione». All’inizio della relazione del futuro pontefice, uno schema fa il computo dei fogli: sono 1634. Il danno era notevole, nonostante i restauri.
Armando Torno