Gian Francesco Bascapè nacque nel 1550 a Melegnano (Milano) da Angelo e Isabella Giussani. Iniziato agli studi classici sotto la guida di un dotto sacerdote, completò la sua formazione umanistica e, passato all’Università di Pavia, si laureò brillantemente nel 1574 in diritto civile ed ecclesiastico. Rinunciando agli studi, ad una promettente carriera mondana e all’affetto della tenera madre, il neo dottore si offrì al santo arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, col proposito di «servire Dio sotto la sua obbedienza». Ricevuti infatti dal santo l’abito ecclesiastico, la tonsura e gli ordini minori, il giovane Bascapè fu ammesso nel gruppo ristretto dei familiari e nominato canonico del duomo. Il Borromeo lo volle accanto a sé nella visita apostolica alle diocesi di Cremona e Bergamo, al concilio provinciale, nella ricognizione di reliquie e ne sfruttò l’intelligente abilità in altri affari di Curia. Nel 1576 scoppiava virulenta la peste e il Bascapè, che era diacono, poté assistere all’eroica carità dell’arcivescovo di Milano e descrivere poi, in pagine drammatiche, gli orrori del flagello. Ordinato sacerdote il 29 luglio 1576 si ritirò nella quiete e negli studi specializzandosi nella storia, nei riti e negli usi della Chiesa ambrosiana. Ma la sua anima inquieta, anelando a più alte mete di perfezione, decise di consacrarsi al Signore abbracciando la vita religiosa nell’Ordine dei barnabiti. Il giorno della vestizione, in omaggio e a ricordo del suo arcivescovo, cambiò il nome di battesimo in quello di Carlo e l’8 maggio 1579, superato un periodo di crisi, professava i voti. Malgrado gli impegni della vita regolare, il Bascapè continuò a servire il Borromeo: dietro sua istanza scrisse un regolamento di vita per il tredicenne cugino Federico, compose un trattato per la riforma dei divertimenti, pubblicò l’edizione del IV concilio provinciale, inviò precetti circa la predicazione e compilò norme sui doveri del vescovo. In qualità di uomo di fiducia e di inviato straordinario di s. Carlo, svolse una missione segreta presso Filippo II di Spagna e a Madrid strinse cordiale amicizia con padre Luigi da Granata. Tornato a Milano riprese il ritmo della sua fervente attività di scrittore pubblicando una Storia della Chiesa, la traduzione dei decreti tridentini circa la disciplina delle monache, la ristampa del Rituale e del Breviario ambrosiano e di altre opere storiche. Nel 1584 ebbe la consolazione e il dolore di essere testimone della morte del Borromeo. Spinto dallo zelo e dalla riconoscenza, raccolse un vasto materiale documentario sulle virtù e le imprese del suo impareggiabile maestro, pubblicando, nel 1592, quella vita del santo che fu giudicata dai contemporanei un capolavoro e «tenuta come un Vangelo». Promotore indefesso della causa di canonizzazione del Borromeo, ebbe la gioia di vederlo iscrivere nell’albo dei santi e di poter cantare nel duomo di Milano la Messa e i Vespri in onore del suo «santissimo padre e signore». Nel frattempo, chiamato dalla fiducia dei suoi confratelli, era eletto, a soli 36 anni di età, alla suprema carica dell’Ordine barnabitico. Il programma del suo governo si mosse su due direttrici: promuovere la disciplina interna ed estendere i confini della congregazione. Esigeva la più perfetta osservanza e un’ obbedienza assoluta dai sudditi, ma nei superiori amava soprattutto la delicatezza e la discrezione del giudizio. Era onnipresente con le sue lettere ad esortare e dirigere con uno zelo e una rettitudine con cui si conquistò l’ammirazione e l’amore dei religiosi. Nei nove anni del suo generalato consolidò le basi dell’istituto lasciandovi l’impronta della sua personalità. Nella tradizione barnabitica Carlo è ricordato come uno dei maiores nostri e forse l’esponente più tipico della seconda generazione cinquecentesca. Ma il suo nome è legato alla storia della Chiesa e della Controriforma per il lungo, operoso e santo episcopato novarese. Nel 1592 Clemente VIII lo designava infatti alla cattedra illustre di san Gaudenzio. Miseria economica e scontento politico agitavano la popolazione che versava in una condizione morale-religiosa allarmante a causa delle assenze e del rapido succedersi dei vescovi. Emulando le gesta di san Carlo, curò con vigile amore la formazione del clero eliminando abusi e favoritismi; eresse nuovi seminari per i chierici di teologia; celebrò tre sinodi diocesani promulgando sagge disposizioni legislative; operò con fermezza perché gli ecclesiastici fossero all’altezza dei loro doveri; istituì in diocesi gli Oblati di S. Gaudenzio. Si adoperò risolutamente a riformare i costumi del popolo con l’introduzione di pratiche di vita cristiana, con l’apertura di «scuole di dottrina» e con l’erezione di un considerevole numero di luoghi sacri. Visitò due volte le 260 parrocchie della sua diocesi raccomandando ovunque la frequenza ai sacramenti, le opere di pietà e di carità, la santificazione dei giorni festivi. Pastore infaticabile, organizzatore dinamico, padre dei poveri, predicatore ardente della parola di Dio, la sua azione pastorale non trascura alcun settore della vita cristiana: dall’eresia incombente della Svizzera alla bestemmia serpeggiante tra il popolo; dai balli licenziosi del carnevale alle prepotenze dei signorotti locali; dai Monti di Pietà alla cura per gli ospedali e gli orfanotrofi. Con la maestà della persona, il fascino della dottrina, l’amabilità del tratto, riusciva a comporre discordie e a suscitare entusiasmi di fede, fervore di opere fra i fedeli che cominciarono a venerarlo come uomo di Dio. Non gli mancarono le lotte aperte e le accuse malevole di gente ignobile che non tollerava l’opera riformatrice del vescovo. Alcuni fanatici tentarono persino di avvelenarlo, di ucciderlo con un colpo di archibugio e di bruciargli il palazzo episcopale. Alla fine brillò di fulgida luce l’esimia santità del Bascapè che meritò di essere chiamato dal b. Innocenzo XI «un altro s. Carlo». Morì estenuato dalle fatiche il 6 ottobre 1615, dopo 22 anni di episcopato a Novara. In questa città si è ultimato nel 1978 il processo storico informativo per la causa di beatificazione. La vastissima raccolta dei suoi scritti è stata approvata con decreto del 12 marzo 1982. Scrittore inesauribile, lasciò un epistolario raccolto in 35 volumi in folio e oltre un centinaio di opere a stampa o manoscritte di argomento agiografico, ascetico, giuridico, storico, liturgico, pastorale e scritturistico.